mercoledì 26 maggio 2010

Ricordi, #2.

Ricordo i fichi che mi comprai al mercato e che mangiai rincasando, un mattino di sole.

Ricordo la prima vacanza che ho fatto da sola.

Ricordo quando in casa c’era un topo e ne ho visto le zampe rosa oltre la fessura della porta del bagno.

Ricordo la cresta est del Cervino.

Ricordo la volpe che veniva davanti alla cucina del ristorante dove lavoravo.

Ricordo una barretta di cioccolata con i buchi, io che la mangiavo e mio padre che guidava di sera verso casa.

Ricordo una sciarpa viola di lana, che mi piaceva tanto.

Ricordo un paio di sandali neri, che rovinai definitivamente camminando su un sentiero sopra a Santa Elisabetta.

Ricordo un libro bianco e lungo, di racconti di partigiani sul colle della Galisia.

Ricordo quando ho vinto la gara dei mille metri e la mia immagine riflessa negli occhiali da sole di chi mi stava guardando dopo la corsa.

Ricordo il gioco della bottiglia fatto in classe.

Ricordo i primi quadri che faceva Giulio.

Ricordo un capodanno triste.

Ricordo le corse per casa che facevamo io e Golia.

Ricordo due enormi leccalecca che la befana mi regalò.

Ricordo la prima cena di Natale in cui anche io come tutti gli altri ho bevuto il vino.

Ricordo quando riguardavo i filmini di famiglia.

Ricordo le mani di mia nonna che sfogliavano gli album fotografici con le pagine nere.

Ricordo la manifestazione studentesca a Ivrea.

Ricordo la sera prima del test d’ingresso all’università.

Ricordo l’imbarazzo di molte situazioni.

Ricordo mia sorella febbricitante nel letto con la mononucleosi.

Ricordo quando credevo che il malditesta avrebbe trasformato mia mamma in una brutta vecchia signora.

Ricordo il trasloco dei miei nonni.

Ricordo l’estate che ho passato ad Abbiategrasso e le caramelle che lasciavano la lingua tutta blu.

Ricordo educazione sessuale alle medie.

Ricordo quando abbiamo perso il guinzaglio di Golia in mezzo alla neve alta.

Ricordo quella volta che sono andata ad ascoltare Paolo Conte giù al lago, col mangiacassette.

Ricordo un film mangiando cachi.

Ricordo il profumo del miele appena smielato.

Ricordo quando ho aiutato mio padre a dare fuoco alle vecchie e vuote arnie.

Ricordo l’ovomaltina.

Ricordo la flebo bianca attaccata la braccio di mia madre.

Ricordo un pianto tremendo.

Ricordo un altro pianto tremendo.

Ricordo un giardinetto pubblico in Liguria.

Ricordo una granita al melone.

Ricordo il funerale di Viviana.

Ricordo alcuni esami all’università.

Ricordo serate intere passate al bar a bere spritz e organizzare mostre d’arte.

Ricordo la notte in cui non ho dormito e ho aspettato facesse giorno.

Ricordo l’alba.

Ricordo l’odore del letto di Daniele.

Ricordo la salvia e il rosmarino che avevo nell’altra casa.

Ricordo quando ho perso le scarpe e sono tornata a casa scalza.

venerdì 21 maggio 2010

Quel signore distinto

Ho letto che c'è un signore, un signore molto distinto, che tutti i giorni fa il giro del centro a partire dalla zona di Porta Nuova, a Torino. Questo signore molto distinto, pare, ogni giorno vada a trovare chi, rimasto senza un lavoro e senza una casa, si ritrova per scelta o per disperazione a vivere tra le pieghe della città. Seminascosto in certi angoli.
Chi sta sotto i portici di Piazza Statuto, sdraiato su un foglio di giornale. Chi in via Roma, tra le vetrine pulite e lucenti dei negozi di moda. Chi in Via Po o chi davanti alla stazione dei treni, magari ad un binario morto che nessuno vede e che nessuno vuole immaginare e che magari neanche esiste.
E pare che il signore distinto chieda semplicemente "Allora? Come andiamo? Di cosa hai bisogno?" e che poi aggiunga, magari "Hai ancora la febbre? Hai mangiato? Se hai bisogno chiama il numero che ti ho dato. Ciao. A domani."
Se tutto questo è vero, ma forse anche se non lo è, ho deciso che voglio trovare quest'uomo. E guardarlo, da lontano. E seguirlo. E osservare il suo vestito distinto che si inginocchia davanti a un senza tetto.
Mi immagino questo signore con i capelli brizzolati e a guardar bene gli vedo una pipa tra le labbra e poi in mano, con le dita che ne abbracciano il fornelletto.
Come si può chiamare, l'uomo distinto? Mario? Carlo? Aristide? Non so, non so davvero, ho difficoltà a trovare i nomi giusti da associare alle persone.
Ma domani mattina, che sarà un sabato finalmente di sole, andrò in giro a cercarlo.

domenica 16 maggio 2010

Ricordi, #1.

Ricordo d’improvviso un copri divano blu, a righe irregolari gialle e verdi. Era di cotone, un telo che sapeva di caraibi.

Ricordo quando mi sono tagliata i capelli a zero e come il mio viso era asciutto e giovane.

Ricordo la pelle d’una estate passata al sole.

Ricordo l’ultima volta che ho fatto l’amore con Roberto, in montagna, sotto un piumone caldo e voluminoso.

Ricordo una volta che tornando a casa mi si è rotta la borsa della spesa e si sono rotte delle bottiglie di birra e un signore mi ha aiutata a raccogliere i vetri.

Ricordo la spiaggia di Ostia, quasi invernale e col sole grigio basso sul mare.

Ricordo quando da piccole io e mia sorella andavamo a comprare la focaccia a metà pomeriggio, dopo aver fatto il bagno a Riva Ligure.

Ricordo il furgone rosso di mio padre e il rumore che facevano le portiere quando si chiudevano.

Ricordo quando avevo paura a entrare nella mia stanza perché la notte avevo fatto un incubo che mi teneva lontana dal mio letto.

Ricordo quando sono caduta da cavallo per la prima volta.

Ricordo quando sono andata a cercare un distributore di preservativi, perché volevo fare l’amore con il ragazzo con cui stavo andando a vivere in una nuova casa.

Ricordo quando sono andata in canile e ho visto Kailù per la prima volta.

Ricordo l’odore di mia madre, quando veniva a svegliarmi al mattino.

Ricordo la prima volta che sono andata a ballare.

Ricordo quando ho rigato la macchina dei miei, entrando nel cortile.

Ricordo quando è morta mia nonna.

Ricordo quando studiavo per l’esame di stato bevendo martini rosso chiusa in camera.

Ricordo quando ho capito che stavo facendo una cazzata.

Ricordo quando usciva la musica dalle casse alte sul muro della cucina.

Ricordo quando ascoltavo i vinili di musica classica.

Ricordo il quartiere ebraico di Cracovia.



Alla fiera

Lingotto di Torino. Fiera del libro. Senso del dovere, quello di scriverci qualcosa al riguardo? Scrivi, beh, vai alla fiera. Logico, matematico.
Ma la scrittura è matematica?
Non so se aggiungere alla massa di cose/articoli/recensioni che verranno scritti anche la mia piccola e personale opinione. Non credo importi a nessuno, non so neanche cosa riportare qui, su questo blog.
Ho visto tanti visi. Questo sì. Uno anche molto bello e interessante.
Ho comprato due libri e se solo l'entrata alla fiera non fosse costata otto euro probabilmente ne avrei comprato un terzo.
La piccola editoria, introvabile. Ma lo si sapeva. Mi ha stupito invece trovare due e più stand delle case editrici che pubblicano solo sotto pagamento. Mi è sembrata una barzelletta, sinceramente. Eppure.
Sono stata al Lingotto per qualche ora e uscita di lì mi sono resa conto di avere le energie dimezzate. Confusione. Andirivieni. Turismo culturale e valori percepiti, lontani dai valori reali. Come, forse, succede in tutte le grandi manifestazioni artistiche e culturali. Biennali d'arte, fiere d'arte, fiere dell'editoria. Mi sono rispromessa di andare in pellegrinaggio alla Fiera della piccola e media editoria a Roma, quando sarà il momento. Per vedere com'è.
Quando andai alla Fiera del Libro di Torino per la prima volta facevo terza liceo, credo. Mi era sembrata enorme. Stracolma. Una mia amica rubò tre libri. Io pensai che al mondo c'erano troppi libri.
Altra barzelletta: alla miriade di libri già esistenti, adesso, ho aggiunto il mio.

giovedì 13 maggio 2010

on the roof...

...quali parole servono oggi?

Piero on the roof
coreografia: Rodrigo Pardo basato sulla ricerca sul movimento di Piergiorgio Milano
Ballerino: Piergiorgio Milano
musica:Simon Thierre
regia: Rodrigo Pardo
riprese: NFI per il Napoli Teatro Festival Italia

martedì 11 maggio 2010

Done, not done

Ritrovo un foglio di carta, piegato in due, a quadretti e scritto di penna verde. Ordinato, con un lato sporcato da una striscia di scotch ormai vecchia di anni. Il foglio è diviso in due colonne. A sinistra la colonna "Done" a destra la colonna "Not done".
Qualcosa mi torna alla mente.
Done: a portrait of a friend.
Not done: a portrait of an inimical.
Le frasi si alternano, positivo e negativo. Fatto e non fatto.
Done: impress my lips shape on a vaporetto misty window.
Not done: impress my shoes shape on the room ceiling.
Done: reproduce with a draw the Mattelhorn mountain, disegnare il Cervino.
Not done: destroy the Mattelhorn mountain, distruggere il Cervino.
Reproduce a genexploited face, riprodurre un viso rovinato dalla genetica, fatto, ridurre il mio viso come se fosse stato rovinato, make my face destroyed, not done.
Fatto: collect baby's objects found on the street, collezionare oggetti di bambini trovati in strada. Not done: fare qualcosa con questi oggetti.
Done: have made a space completely mine.
Fatto: aver reso uno spazio completamente mio.
Not done: have made a dogma completely mine.
Non fatto: aver reso un dogma completamente mio.

Performing Now

Ieri sera, dalle sette, intorno al Palaisozaki di Torino ha preso vita la parata di giocoleria frutto dei tre giorni di laboratori organizzati per lo Student Performing Festival, la Parata Youth for Joy 2010.
Clave, palline, cerchi, fuochi: tutti sotto il tendone, anche per ripararsi dalla pioggia fortissima e fedelissima di questi giorni.
L'atmosfera era elettrizzante.
Giovani, tantissimi giovani, ragazzi, ragazzine, bambini, tutti a sperimentare quel che avevano imparato durante i workshop.
Colori, tantissimi colori, rosso, blu, verde, giallo, clown sui trampoli, clown sulle biciclette. Una banda di ottoni vestita a festa, mangiatori di fuoco, musiche tribali dal Senegal e ancora, giocolieri, fachiri, mimi.
Torino, quest'anno, è la Capitale Europea dei Giovani. E i giovani, finalmente, tutti insieme, si sono presi i propri spazi.
Dalle nove, poi, all'interno del Palaisozaki, sul palco, si sono esibiti tutti quei gruppi che da sabato non hanno fatto altro che ballare e creare coreografie. Hip-hop contaminato al tip-tap, danza del ventre e danza contemporanea, coreografie di massa. I ragazzi hanno ballato per tre ore con un sorriso enorme appiccicato in faccia.
A me ha colpito questo: erano tutti insieme. Giovani molto diversi tra di loro, di nazionalità diverse, di idee diverse, di gusti diversi. Tutti insieme, semplicemente per esprimersi, per tirar fuori, per osare.

www.torinoperformingfestival.it

lunedì 10 maggio 2010

Danza di quiescenza

Non sono mai andata a vedere molti spettacoli di danza. Direi che si possono contare sulle dita d'una mano, quelle volte. E ieri sera, senza averci pensato più di tanto, sono andata a teatro e ho guardato un balletto di danza contemporanea. Pullman, caffè, poltroncina rossa.
Dieci persone, di cui due uomini, hanno ballato per quasi due ore. Stupendomi, stupendomi molto.
Mi sono emozionata più volte. Vuoi la musica, forte e empatica. Vuoi perchè vedere dei corpi che si muovono con disinvoltura e sicurezza è bellissimo. Vuoi perchè in alcuni momenti avrei voluto essere io a muovermi così, a ballare così, a esprimermi in quel modo.
Le potenzialità del fisico mi affascinano da sempre. Quel che il nostro corpo, di tutti noi, può fare. E come può essere aggraziato e arrabbiato e teso e triste e piangente...
Corpi in principio quasi nudi, coperti solo nelle parti intime, che parevano aggrottati gli uni con gli altri, intrappolati in uno stato originario e originale; e quegli stessi corpi che col tempo hanno conquistato uno stato più libero, fatto di salti e voli e corse. Poi, però, sono arrivati i vestiti, abiti con cui continuare a danzare, e poi i corpi hanno preso a lottare tra di loro, a farsi la guerra, una guerra di movimenti. Per finire, stremati e scarici, nella condizione iniziale, accresciuta di esperienze e null'altro.
Il filo narrativo, per quanto io possa aver capito, si poteva risolvere in questo ciclo evolutivo ( e monco). O forse, era solo quiescenza, attesa per un qualcosa che sarebbe venuto.


Powerful and profound - Dimora Coreografica
coreografie: Cristina Golin, Cristina Ruberto, Cristina Taschi
"... la particolarità di questo spettacolo è dare spazio alla sperimentazione e alla rielaborazione di tutte le possibili gestualità del balletto per rinforzare l'originale valore comunicativo della danza, la sua valenza artistica come linguaggio muto fatto di movimenti, frammenti di immagini solo suggerite dalle linee dei corpi per lasciare spazio alla fantasia e alla trasposizione creativa della sensibilità di chi guarda." da Vivi la danza, del 31 marzo 2010

martedì 4 maggio 2010

Quello spazio

Ho cambiato quartiere.
Sulla strada per raggiungere casa passo davanti ad uno spazio aperto incastonato tra nuovi palazzi. Andando a ritroso attraverso immagini viste in film e cortometraggi, mi ricorda uno scorcio della periferia di Palermo. O uno di quei luoghi vuoti della Roma di Pasolini regista.
E' un avvallamento di non so quanti metri quadrati, io ho sempre avuto difficoltà a quantificare misure, altezze e pesi. Ma è grande, molto grande. Un'area come un anello da ippodromo.
Il terreno è coperto da spettinata erba, irregolare, alternata a macchie di terra. In questi giorni di pioggia torrenziale, poi, si sta riempendo di acqua stagnate.
Non riesco a dire sia un posto triste. E', piuttosto, desolante.
Dovrei capire cos'è. Perchè c'è. A cosa serve, se serve a qualcosa - per qualche iniziativa della Circoscrizione o del Comune, improbabile, ma fattibile.
Ho deciso, stamani, che lo fotograferò e ne appenderò l'immagine in camera, sperando di fare una foto decente.
Non so. Ha qualcosa che mi piace. Ha tante cose da dire, in potenza.
E chissà poi ci scriva un nuovo racconto.

lunedì 3 maggio 2010

Cose svanite

Ciò che persiste, che rimane.
Cose svanite, facce e poi il futuro.
Questa citazione mi mette in imbarazzo, mi fa arrossire nel momento in cui mi serve per dire al mondo qualcosa e questo qualcosa lo dico, forse, citando De Andrè.
Arrossisco per il pudore, per il rispetto, per la cura, tanto della persona quanto delle parole.
De Andrè mi appartiene, questo lo sento. Non mi appartiene dirlo. Quindi lo farò una volta soltanto. Questa.
Della canzone che ho citato vorrò per sempre ricordarmi queste parole:
mi sono spiato illudermi e fallire,
abortire i figli come i sogni,
mi sono guardato piangere in uno specchio di neve
mi sono visto che ridevo
mi sono visto di spalle che partivo
Sono affezionata al momento in cui ho capito queste frasi. In macchina, una sera di primavera che è diventata presto notte e chissà perchè mi sono ritrovata a guardare un cielo nero e stellato lungo una strada di montagna. Quella canzone è indissolubilmente quel momento.
Cose svanite ha una porzione di dissolvenza che m'attira. Le cose, poi, come le facce, hanno un'indeterminatezza che viene contraddetta dalla loro stessa fisicità.
Vedi, tocchi, baci, ma non capisci, non sai, non puoi.
Cose svanite sono anche, forse, tutte quelle cose che si dimenticano, che si lasciano lì in un angolo. Ci si dimentica di loro e loro si dissolvono. Evaporano.
Cose svanite sono quelle cose che io non voglio svaniscano. A ciascuno il suo accanimento.

Una volta una persona mi disse, vivi artisticamente l'esistenza.
Ci vuole coraggio, pensai.
Ci vogliono delle cose che io non ho, pensai.

Il punto di fuga sta nello sguardo.
Come guardi il mondo. Cosa vedi. Su cosa ti soffermi. Quante cose svanite vedi.

Da "Paroxetina", about BLA.

Nel racconto "Bla", ad un certo punto, si parla di Giorgio.

... Nel tempo che mi sembra d'aver riscoperto, vedo davanti a me tutti i personaggi marginali che ho incontrato prima di adesso. Persone che adesso sto imitando.

Ricordi Giorgio? Lo abbiamo conosciuto insieme. Gli abbiamo portato una coperta e un piatto di pasta caldo. Noi si era seduti tranquillamente di fronte all'Abbazia della Misericordia, a parlare e ridere e progettare il futuro. Lui si è avvicinato e ci ha chiesto una sigaretta. Tu gli dicesti, se vuoi ho del tabacco, e da lì nacque tutto.

Ecco, se adesso cerchi di vedermi, pensa che sono come Giorgio. Senza casa, senza mutande pulite. Pensa anche che in cuor mio spero di trovare una persona come te, che non mi allontani se mi avvicino, che mi offra una sigaretta di tabacco e che mi chieda, come ti chiami?

Già, come mi chiamo?


Giorgio è una persona che ho conosciuto a Venezia, ormai quattro anni fa. Non so più dove sia, se sia ancora vivo, cosa stia facendo, se poi effettivamente sia riuscito a raggiungere Medjugorie. Da un giorno all'altro non l'ho più visto, se non poco prima di lasciare la città, un pomeriggio. L'ho intravisto dal vaporetto, sotto i portici dell'Erbaria di Rialto e allora l'ho raggiunto. Lui non mi ha riconosciuta. Aveva la pancia più gonfia delle ultima volte, era più sconvolto, più confuso. Non mi guardava in faccia, parlava a vanvera, parole caotiche.
Quando lo conobbi, Giorgio trascorreva le sue giornate lungo le Fondamenta della Misericordia, vicino al Ghetto Ebraico di Venezia, dove vivevo. Mi stupì molto la sua intelligenza, i ragionamenti arguti e vivaci che faceva, tra un mozzicone di sigaretta e l'altro. Lo andavo a trovare spesso, mangiavamo insieme seduti lungo le rive del canale.
Qualche volta venne a casa, tra gli sguardi stupiti dei miei coinquilini. Poi, una sera, decidemmo che era meglio non salisse più. Quella sera Giorgio cercò di basturbarsi seduto sul divano, guardando insieme ad altra gente una partita di calcio alla tv.
Altalenava periodi tranquilli e gioiosi a periodi totalmente sedati. Quando lo curavano, come diceva lui, chissà chi poi, era irriconoscibile. Si svuotava, si trasformava in un'ombra sciatta, anche se era sempre pulito e indossava vestiti nuovi.
A lui stare a Venezia piaceva tanto perchè non c'erano le automobili. Non ho mai capito di dove fosse originario e se avesse una famiglia. Sbiascicava di parenti tiranni e questioni di soldi, nulla di preciso, nulla di chiaro.
Voleva raggiungere Medjugorie per vedere la Madonna, questo era quello che diceva sempre. Voleva trovare i soldi per il viaggio, ma non ne aveva. Aspettava un'eredità importante, diceva.
Giorgio è stata una delle persone più interessanti che ho conosciuto. Molto, molto intelligente, nonostante tutto. E mi ha lasciato in eredità tantissimi pensieri.

domenica 2 maggio 2010

Questo Blog

Gravito intorno ad un umore. Ho la nausea e non posso farci niente. Forse dovrei dormire, con la finestra aperta, in questa stanza che non è mia.
Penso agli ultimi e non so come dirlo. Dire cosa? Il loro essere soli? Il loro essere esterni? Anomali, speciali, disperati?
Penso agli ultimi e vedo delle facce. E poi delle posizioni. Corpi accovacciati per terra e altri corpi che ci camminano affianco. Vedo anche degli occhi. Acquosi. E poi vedo delle labbra, umide, senza un confine preciso, senza contorni che invitino alla certezza. Sorrisi come vuoti, immobili.
Se penso agli ultimi vedo tantissime mani. E le vedo sporche, banalmente sporche.
Penso agli ultimi e non vedo più il paesaggio in cui stanno, come fossero il soggetto d'un quadro che ha dimenticato lo sfondo. Nessuna stazione all'alba. Nessuna panchina. Nessuna mensa affollata.
Ci sono delle vite che sembra si siano perse.
Restano dove sono perchè non sanno dove altro andare. E anche se si spostano, anche se vanno, il loro è un vagare che manca di presa sul presente.
Penso a ciò che mi sta intorno e ci vedo confini, margini, perimetri da non valicare. Una divisione del bene che non è più comune, parcelle di finta sicurezza, egocentrismi. In un luogo così non può esserci posto per tutti.

Gravito intorno ad un umore. Mi assale un senso di incapacità, come quando le braccia restano distese lungo i fianchi e non trovano nessuna forza. Molli, pesanti nell'impotenza della lotta contro la gravità. Non so il perchè di questa simpatia. Una ragione ci dovrà pur essere, e sicuramente c'è. Al momento, però, è come se rimanesse ineffabile e leggermente nascosta.

Persone e personaggi si sono sovrapposti, si sono compenetrati, come in atto d'amore.
Ho scritto di questo scambio. Trasfusioni.
E in un modo o nell'altro continuerò a farlo.