giovedì 13 settembre 2012

On characters by D. F. Wallace

"I romanzi sono come matrimoni. E' così triste finirli. Quando ho finito il mio primo libro mi è parso di essermi innamorato della mia protagonista e che fosse morta. Bisogna capire che scrivendo un romanzo nascono strani e invisibili amici e poi si devono uccidere, anche se sono stati vivi soltanto nella nostra immaginazione, e dopo averli uccisi si deve andare dal droghiere o parlare alla gente nei ricevimenti e simili. I personaggi dei racconti sono diversi. Diventano vivi negli angoli degli occhi. Non si deve vivere con loro."

Per la prima volta, in vita mia, quasi mi sembra di poter capire.
Mi sono imbattuta in una storia che si struttura in romanzo. E i miei personaggi, loro, stanno vivendo con me molto di più di tutti quelli che son venuti prima, nei racconti, brevi, schizzati.

martedì 21 agosto 2012

Perché agosto?

Perché agosto in città?
Non è il primo della mia vita e credo proprio non sarà l'ultimo... però quest'anno, dopo tutto il viaggiare dei mesi precedenti, accuso di più la condizione di staticità.
E allora, quasi sadicamente, mi infilo nella staticità come a volerne tastare i limiti.
Poche passeggiate, magari giusto per comprare frutta e pomodori al mercato. Per il resto, me ne sto a casa.
E scrivo (...!).
E leggo.
Nell'ultima settimana ho letto un libro al giorno. Le biblioteche sono chiuse, quindi ho affrontato quei libri che mai ero riuscita a leggere prima; ho riletto libri già letti; ho comprato autori italiani a me sconosciuti e pubblicati negli ultimi tre anni.
Sono un po' delusa, ad essere sincera, di ciò che ho letto.
Stamani ho letto "Love in a blue time", di H. Kureishi, autore che conobbi ad una passata edizione di Collisioni. Lui è quello che si salva, nonostante i cazzi, i culi e la cocaina (ma a ben vedere, appunto, alcuni racconti sono davvero belli).
Adesso inizio un libro che è stato finalista allo Strega nel 2010.
Speriamo in bene.
Speriamo anche questo agosto finisca.

Una telefonata, part three (ancora e sempre agosto...)


In cucina la radio accesa accompagnava la mia danza culinaria, mentre facevo sbollentare i broccoli in abbondante acqua, mentre poi li facevo rosolare in padella con uno spicchio d’aglio, mentre stappavo la birra fresca di frigo. Apparecchiai il bancone dove ero solito cenare e salai l’acqua dove avevo sbollentato i broccoli, così da farvi poi cuocere la pasta. Presi una bel po’ di spaghetti ed appena l’acqua riprese a bollire ce li buttai dentro, con l’intento di farli saltare, a cottura ultimata, nella padella con i broccoli.
Quando gli spaghetti erano ancora dritti nella pentola, il telefono squillò.
Ritornò fulmineo il ricordo della telefonata del mattino.
Naturalmente poteva non essere quello che temevo, poteva essere ancora Elisa che mi aggiornava su chissà cosa, poteva essere un caro amico del liceo che si rifaceva vivo dopo vent’anni, poteva essere chiunque, ma io avevo un presentimento. Un terribile presentimento.
Prima di tutto c’era la puntualità fastidiosissima di quegli squilli che mi faceva dar credito al presentimento: avevo appena buttato la pasta, pochi minuti di distrazione e sarebbe stata scotta. Ero in procinto di mangiare e rilassarmi. Era un momento perfetto, insomma, per disturbarmi.
E poi era probabile che quella voce insolente mi avesse cercato per tutto il giorno, ma io ero fuori casa, e ora stesse verificando se fossi rientrato.
Con la birra in mano andai al telefono ed alzai la cornetta.
“Bentornato!” disse quella voce, proprio quella, inconfondibilmente la voce anonima della mattina.
“Allora, vediamo se indovino, hai paura di divertirti? Vedi, ci ho pensato per tutto il pomeriggio e questa è la mia conclusione” disse convinta.
“Lei ha bisogno di aiuto! Lei farnetica!” dissi io disturbato da quella affermazione.
“Su, via, non essere così permaloso. La verità fa male, lo so, però …”
“Però un bel niente! Come si permette di psicanalizzarmi in un minuto di telefonata! Se c’è qualcuno che ha dei problemi è lei, questo è sicuro!” dissi io, bevendo poi un sorso dalla bottiglia di birra.
“Va bene, va bene, ho sbagliato” disse la voce con un tono di scuse.
“Sì, lei ha sbagliato tutto dal principio e come stamani lei ha sbagliato anche momento per chiamare” dissi convinto, pensando ai miei spaghetti che avrebbero necessitato almeno di essere girati mentre cuocevano.
“Vedi, questo fa parte del gioco. Una delle due parti deve essere scontenta, per dare equilibrio all’insieme” mi disse la voce come volesse spiegarmi uno degli assioma più importanti della chimica nucleare.
Io corrucciai lo sguardo, bevvi un altro sorso di birra e pensai seriamente che avevo a che fare con uno squilibrato.
“Senta, mi spiace, ma ho la pasta sul fuoco. La devo lasciare. La prego di non cercarmi mai più. Io non so chi lei sia e non mi interessa saperlo, naturalmente. Penso di non averla mai incontrata e di non averle mai fatto alcun torto. Addio”
Quando riattaccai rimasi fermo qualche istante, poi corsi a girare gli spaghetti, al termine della cui cottura mancava veramente poco. Riaccesi il fuoco sotto la padella, trangugiai la birra e scolai gli spaghetti.
Seduto al bancone, con un piatto di abbondante pasta ai broccoli sotto il naso, con una nuova bottiglia di birra affianco al bicchiere, con molta confusione in testa, aspettai mi tornasse l’appetito.
Procurandomi un fastidio insopportabile, il telefono squillò mentre masticavo il primo boccone di quella cena. Lo stomaco mi si contrasse, ma continuai imperterrito a mangiare. Ci furono una ventina di squilli. E poi altri venti dopo pochi minuti, fino a quando decisi di staccare il telefono. Mi sdraiai sul divano e nel giro di mezz’ora mi ero addormentato.

mercoledì 15 agosto 2012

Una telefonata, part two (sempre d'agosto...)


Devo ammettere che cominciai a sentire un po’ di angoscia cadermi addosso. La situazione stava diventando inquietante, insomma, non riuscivo a capire la qualità di tutte quelle parole e insinuazioni, non sapevo se dubitare dei miei ricordi, se dovevo forse cominciare a credere che una parte inconscia di me stava nascondendo alla mia razionalità un incontro avvenuto, una disgrazia successa. Quella voce rimaneva calma, non sembrava nascondere del rancore.
È pur vero che di cretinaggini io ne ho fatte, nella mia vita. È probabile che qualcuno sia arrabbiato con me per qualche motivo, ma è forse questo un atteggiamento che quel qualcuno avrebbe oggi?
“Senti, stai calmo, rilassati. Non ti chiedo niente, solo di ascoltarmi per qualche minuto, così ci divertiremo.”
“Cosa?” chiesi sbalordito “Divertirsi? Ma lei è completamente …” non feci in tempo a finire la frase che la voce disse:
“Divertirsi, sì, perché, non sai più cosa vuol dire?” e disse questa frase con una sfumatura nella voce che mi lasciò completamente disorientato. Era intraducibile, l’intenzione di quella voce. Era … era … non riuscii ad andare oltre. Riattaccai immediatamente la cornetta del telefono.
Seguì un silenzio profondissimo. L’intera stanza sembrò ovattarsi d’improvviso. Il mio respiro risuonava nella cassa toracica con forza inaudita. Restai immobile davanti al telefono per lunghi istanti.
Non avevo capito nulla di ciò che era successo, ma mi colse la paura, di questo ne sono sicuro.
Il telefono squillò improvvisamente un’altra volta. Feci un passo indietro, guardando quell’apparecchio rosso con timore, come se da quella plastica potesse riuscire quella voce. Squillò lungamente, ma io non risposi. Quando poi tacque andai verso la caffettiera.
Mi versai tanto caffè nella tazzina e senza neanche zuccherarlo lo buttai giù. Poi ne presi ancora un goccio, dolce.
Mi sedetti sul divano e cominciai a pensare seriamente a chi potesse essere quella voce. La verità era che non ne avevo la più pallida idea. Mi feci anche un esame di coscienza, misi in discussione molte cose di me, mi feci il terzo grado, guardai i torti che feci dritto negli occhi. Nulla, nulla di tutto questo, però, poteva giustificare quella strana telefonata.
Rispetto alle altre mattine ero in ritardo e non potevo permettermi di stare lì sul divano a pensare a quella voce e al mio passato. Dovevo proprio decidermi a uscire di casa, l’appuntamento con Elisa sarebbe stato dopo una ventina di minuti. Così mi scrollai di dosso l’umore sospettoso e insicuro che mi era rimasto appiccicato alla pelle e mi preparai per uscire.
Arrivai al bar dell’appuntamento cinque minuti in anticipo. Elisa era già lì, cosa insolita per lei.
“A cosa devo tutta questa puntualità, Elisa?” chiesi scherzando.
“A dirla tutta il mio era un intento di anticipo dell’appuntamento … ti ho anche chiamato a casa per proporti di incontrarci prima, ma non hai risposto al telefono”
“Mi hai chiamato?” chiesi con un interesse spropositato agli occhi di Elisa. “Quando mi hai chiamato?” le chiesi, sedendomi al tavolino.
“Prima, non so quando. Sarà un’oretta fa, ormai …”
“Allora eri tu” osservai a bassa voce.
“Tutto bene?” mi chiese Elisa preoccupata.
“Sì, sì, benissimo. Solo … oh, niente, una sciocchezza, lasciamo perdere!” dissi con un po’ di sollievo.
La giornata trascorse poi normalmente, senza che l’episodio della telefonata mi turbasse più di tanto.
Quando alla sera tornai a casa avevo una fame da lupi. La giornata era stata impegnativa e avevo avuto tempo solo per buttar giù un tramezzino prosciutto e uova. Così l’unica cosa che volevo fare era cucinarmi una buonissima pasta ai broccoli, bere una birra e poi lasciare che la notte mi sorprendesse già addormentato sul divano.

giovedì 9 agosto 2012

Scrivendo d'agosto. Una telefonata, part one.

Quando il telefono squillò io mi stavo facendo la barba. Avevo appena iniziato a radermi la guancia sinistra e a liberarla così dalla schiuma bianca e come al solito ero molto concentrato. Al mattino come prima cosa mi faccio la doccia e mi rado, come fosse una ritualità. Solo dopo essere stato in bagno vado in cucina a farmi il caffè.
Per questo motivo appena sentii il telefono squillare pensai che non avrei risposto, pensai che chiunque fosse stato avrebbe richiamato anche un quarto d’ora dopo. Ma il telefono continuava a squillare, fastidiosamente, e a ogni squillo la mia mano faceva un sussulto. Al decimo insistente trillo decisi dunque di rispondere.
Andai in salotto con un asciugamano tra le mani. Sbuffai e alzai la cornetta, facendo attenzione a non impastarla con la schiuma rappresa sulle mie guance.
“Pronto?”
“Finalmente. Ci voleva tanto?”
“Scusi, chi parla?”
“Non mi riconosci?” chiese quella voce, pacatamente, quasi divertita.
Io riflettei un attimo, spulciando nella memoria a chi potesse appartenere quella voce. Poi dissi:
“No, non la riconosco. Chi è?”
“Fai sul serio?”
A me venne un po’ di nervoso. La schiuma da barba cominciava a darmi fastidio, quasi mi bruciava la pelle e quella voce misteriosa non si palesava.
“Senta, forse ha sbagliato numero, forse cercava un’altra persona. In questo momento sono anche occupato, non posso stare al telefono. Per cui la saluto” e riattaccai.
Tornai subito in bagno e prima di prendere il rasoio tra le mani mi guardai allo specchio chiedendomi se forse non ero stato troppo brusco.  Questo pensiero scivolò subito via e così potei continuare a radermi in tutta tranquillità.
Quando mi sciacquai la faccia, percepii uno strano fastidio al mento. Avevo un taglio piccolo ma profondo. Che strano, non me ne ero accorto prima. E ancor più strano, io non mi taglio mai. Così mentre tamponavo il taglio pensai che era stata quella telefonata a distrarmi così tanto dalla rasatura. Ci doveva essere stato qualcosa che mi aveva turbato.
Con un piccolo cerotto sul mento andai in cucina. Aprii la finestra per far entrare la fresca aria delle mattinate di primavera e cominciai a prepararmi il caffè. Quella mattina optai per la caffettiera napoletana, che da solo qualche mese mi ero comprato. Così la smontai e la rimontai dopo averla caricata di acqua e caffè in polvere. La misi sul fuoco e mi soffermai a guardare gli alberi del giardino pubblico oltre la finestra.
Aspettavo dunque che dal buchino della caldaia fuoriuscisse lo spiffero di vapore, che mi avrebbe avvertito di togliere la caffettiera dal fuoco e di capovolgerla, quando il telefono squillò per la seconda volta.
Appena lo sentii mi congelai in una smorfia di incredulità e fastidio.
Possibile che arrivasse un’altra chiamata proprio quando avevo messo il caffè sul fuoco? Mi precipitai dunque al telefono, sperando di risolvere la questione prima che arrivasse il momento di capovolgere la caffettiera.
Alzai la cornetta e rimasi in silenzio. Sentii un insicuro “Pronto?”, pronunciato dalla voce anonima di prima.
“Sì, pronto!” e poi ci fu un breve silenzio, che mi diede l’incentivo di prevenire le parole di quella voce. “Senta, o mi dice chi è lei o sappia che il suo è tempo perso. Lei oltretutto ha un tempismo pauroso per disturbarmi!”
“Siamo nervosetti?” insinuò la voce.
Io inspirai profondamente e poi mi sporsi per tenere sotto controllo la caffettiera, che sembrava ancora lontana dal bollore.
“Sei sicuro di non riconoscermi? Io ti riconosco e conosco … prova a cercare nei ricordi” mi disse quella voce, sempre calma e sicura. “Sono passati un po’ di anni, ma questo non giustifica il tuo atteggiamento” concluse poi.
“Senta, gli indovinelli non mi piacciono e se realmente mi conoscesse dovrebbe saperlo. Se proprio ci tiene mi dica chi è altrimenti non importa, riuscirò a vivere ugualmente”
“Ne sei sicuro?”
“Sì, ne sono sicuro, mi preoccupa molto di più il caffè che ho al fuoco, se è per questo!” dissi, e guardando verso la caffettiera vidi che proprio in quel momento fuoriusciva del vapore. “Ecco, devo togliere la napoletana dal fuoco!”
“Va bene, io ti aspetto, fai pure”
Non so come mai, ma invece di interrompere la telefonata, semplicemente, senza dir nulla, appoggiai la cornetta al tavolino e andai in cucina a prendere la caffettiera e a capovolgerla. Stupito di me stesso tornai al telefono e dissi “Fatto”
“Bene, adesso abbiamo più tempo, tu devi aspettare che l’acqua filtri nella polvere del caffè … chissà, sarai più rilassato!”
“Questo non lo so … chi è lei? Cosa vuole da me? Come fa a conoscermi?” dissi tutto d’un fiato.

giovedì 26 luglio 2012

Da un vecchio racconto.

Di mariti e mogli e di viaggi con i rispettivi ritorni.

Ma appena prima di spegnere la luce, alla sera, nella nostra camera da letto, non vorrei solo dirle Buonanotte Marie, ma anche dirle che ho bisogno che lei parli di me. Che si perda a decifrare i pori della mia pelle e come fosse codice, capisse i segni innumerevoli che ho accumulato e collezionato nel tempo, nel tempo lontano da lei. Che quel segno che ho sulla caviglia potesse farle nascere la curiosità di chiedermi cosa mi sia successo. Che guardandomi mi chiedesse, dolcemente, di parlare di me così che lei possa poi continuare lo stesso mio racconto dal suo punto di vista.
Buonanotte Marie.
Buonanotte, e mi abbraccia, da dietro, facendo aderire la sua pancia alla mia schiena. E io penso che forse la parola è la comunicazione errata, anche dopo un mese dal mio ritorno, e che mia moglie mi interroga molto più di quanto io possa immaginare e allora mi lascio addormentare con un senso di incomprensione, di sconfitta, di mancanza. Ancora non capisco il reale legame con Marie, penso, ancora non mi capacito della sua forza espressiva, ancora cerco àncora nella sicurezza dell'idioma, confondendo l'amore con la testimonianza. Eppure, eppure, eppure e mi addormento tra un dubbio e la sua mano sul mio petto.

sabato 21 luglio 2012

Polvere.

Pubblico il racconto con il quale ho partecipato al concorso indetto da Scrittori in città in collaborazione con Collisioni.
Tema: Senza fiato.
1800 battute.
Superate le selezioni, ho partecipato al Progetto Giovani di Collisioni, quest'anno tenutosi a Barolo.
(Festival meraviglioso, come sempre!)

Tutte quelle menate sul fumare non fumare, come dubbi amletici a ossessionare  un'intera vita ma poi alla fine son ridotto male comunque, allora tanto valeva fare quello che volevo. Che i miei polmoni son neri mica per le MS, son neri per le polveri che ho respirato in quel merdoso lavoro.
Sposto gli occhi e le immagini si accavallano, il bianco della stanza si confonde con il bianco dei medici e i fischi costanti e assordanti mi entrano nella pancia e mi fanno vibrare il diaframma e allora ricordo una storiella, dove i corpi diventano strumenti musicali loro stessi e forse questa mia fine è così,  forse mi sto trasformando in un'arpa o un tamburo e con tutta l'ironia di tutta la sorte sarò uno strumento muto fermo immobile, che non vibra, che non suona e sarà una vita a metà, come sempre è stata la mia in mezzo alla polvere nera che era sottile come talco e mica ci potevi fare qualcosa, per non respirarla, te la beccavi tutta, nelle narici, sul palato, sulla lingua,  e bevici sopra e soffiati il naso e sputa per terra ogni tanto, facendo uscire quei grumi neri che non sembravano nemmeno catarro, erano solo saliva e polvere, saliva e polvere e quando si usciva dalla galleria il sole cercava di dirti, ma ti vedi? ti rendi conto? però io solo lo ringraziavo, per la luce per il calore per un altro giorno tra la fotosintesi clorofilliana.
Mi vibra tutto, mi vibra la testa lo stomaco le orecchie il rumore dell'apparecchiatura è sempre più acuto e le palpebre mi si stanno chiudendo e come cazzo è possibile che nessuno mi sente, hei, mi sente? non si muovono le mie labbra non si muove la mia lingua non esce alito dalla mia fottutissima bocca , devo tossire devo respirare inspira espira inspira espira inspi       mi sembra d'essere là     non ho         aria          come        tromba         muta           .