domenica 27 giugno 2010

Hamletmachine, Heiner Muller

Mare profondo. Ofelia su una sedia a rotelle. Passano pesci macerie cadaveri e pezzi di cadavere.
Ofelia (mentre due uomini in camice da medico avvolgono lei e la sedia a rotelle con fasce di garza che fanno passare sotto il sedile e poi sulle spalle):

Qui parla Elettra.
Nel cuore dell'oscurità. Sotto il sole del supplizio. Alle metropoli del mondo. Nel nome del sacrificio.
Io butto via tutti i semi che ho ricevuto. Trasmuto il latte dei miei seni in veleno mortale.
Mi riprendo indietro il mondo che ho partorito. Soffoco il mondo che ho partorito, tra le mie cosce. Lo seppellisco nella mia vagina.
Abbasso la gioia della sottomissione. Viva l'odio il disprezzo la rivolta la morte.
Perchè quando con i vostri coltelli da macellaio entrerete nelle stanze da letto saprete la verità.

venerdì 25 giugno 2010

Da "Paroxetina", ELOISE

Ti chiedo se hai conosciuto la parte peggiore di me.
Se sei stato in nuovi lidi.
E se hai visto l'incidente di quella mattina, dove la mia auto s'è schiantata perchè non tenevo le mani sul volante, ma attorno alla tua testa che si stava staccando.
Come si può dimenticare di essere donna?

martedì 22 giugno 2010

Fungo in città

Quella automobile non c'era.
Hanno anche alzato il ponte, per la troppa acqua che ci passava sotto, ormai, ma quella macchina non c'era.
Ha il vetro posteriore spaccato e ne esce un ombrello rosso, a formare la cappella di questo fungo lungo e nero.
E' la casa di qualcuno, penso.
Dentro non si vede nulla.
Tante cose ma indistinte, quindi nulla.
Coperte, probabilmente. E sacchetti. E cartoni.
La gente ci fa il giro intorno, mantenendo una distanza di sicurezza, che sarà di almeno due metri. C'è chi preferisce camminare in mezzo alla strada piuttosto che rasentare la lamiera dell'automobile.
Non ho capito da quanto tempo sia lì. Non ha l'aria di essere un'automobile funzionante. Come ci è arrivata, qui?
Io lo giuro, fino a ieri quell'automobile non c'era.
E' spuntata durante la notte.
Un fungo in città.

lunedì 21 giugno 2010

Cinquecento secoli

Si erano dati un appuntamento, per non perdersi, per essere in qualche modo sicuri di rincontrarsi almeno ancora una volta. Si erano dati un appuntamento sul ponte dove proprio adesso si trovavano, da dove a distanza di pochi minuti ciascuno sarebbe andato in una direzione diversa, lui a destra, lei a sinistra.

Il ponte era larghissimo e lunghissimo, attraversava il grande Fiume Viola della città. Accanto a lui e lei il traffico scorreva fluido e silenzioso, ordinato, incanalato nelle quattro corsie che dalla collina scendevano fin dentro il cuore metropolitano.

Era sera, quell’ora prossima al tramonto, quando nell’aria si sente già il fresco del buio che arriva. Era sera ed era quasi autunno. L’ultimo sole arrivava sull’acqua del fiume come miele, come il dolce miele d’acacia, chiaro, caldo.

Lui e lei stavano parlando di castagne e uva. Camminavano uno affianco all’altra, sfiorandosi appena, senza mai guardarsi. Poi d’un tratto, quando erano a metà ponte, lei s’era fermata. Lui non se ne era accorto e aveva continuato a camminare. Ma lei era rimasta indietro e non accennava a riprendere il cammino. Disse a bassa voce “Quando ci rivediamo?”, ma lo domandò al fiume, forse, o a un’automobile distratta del traffico.

“Quando ci rivediamo?”.

Lui, dopo una ventina di metri, capì che stava parlando da solo, dato che lei non era più al suo fianco. Stava raccontando di quella volta che in bicicletta era andato in collina a rubare qualche grappolo d’uva e … ma dov’è?

“Dove sei?”.

Si voltò per cercarla e vedendola la raggiunse, tornando sui propri passi.

I due rimasero in silenzio.

Dopo qualche istante ripresero a camminare l’uno affianco all’altra.

Il ponte sarebbe finito tra poco. Lui avrebbe girato a destra, lei a sinistra.

“Dovremmo rivederci” bisbigliò lui.

Lei accennò un sorriso.

“Quando ci rivediamo?” chiese lui.

“Quando ci rivediamo?” gli fece eco lei.

Silenzio.

“Tra cinquecento secoli”.

Cinquecento secoli. Le menti di entrambi fecero fatica per visualizzare su una ipotetica linea del tempo quella distanza temporale.

“Va bene” disse dopo poco lei.

“Va bene” le fece eco lui.

Silenzio.

“Dovremmo decidere un posto, per essere sicuri di incontrarci”.

“Giusto”.

“Incontriamoci qui, su questo ponte” propose lei.

“Ma ci sarà ancora questo ponte?” chiese perplesso lui.

Silenzio.

"Certo".

Il ponte presto terminò. Le loro strade si sarebbero divise.

“Allora ci vediamo qui tra cinquecento secoli”.

"Qui, tra cinquecento secoli".

Poi il tempo finì.

Lui girò a destra.

Lei girò a sinistra.

Entrambi si voltarono per vedere la schiena dell’altro allontanarsi. Prima si voltò lei. Poi si voltò lui.

martedì 15 giugno 2010

Tutto il giorno con ancora il sale addosso

Umbre de muri muri de mainé
dunde ne vegnì duve l'è ch'ané
da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua
e a muntä l'àse gh'é restou Diu
u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu
ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria
e a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria
E 'nt'a cä de pria chi ghe saià
int'à cä du Dria che u nu l'è mainà
gente de Lûgan facce da mandillä
qui che du luassu preferiscian l'ä
figge de famiggia udù de bun
che ti peu ammiàle senza u gundun

E a 'ste panse veue cose ghe daià
cose da beive, cose da mangiä
frittûa de pigneu giancu de Purtufin
çervelle de bae 'nt'u meximu vin
lasagne da fiddià ai quattru tucchi
paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi

E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi
emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä

L'uomo con la pancia rossa, seconda parte

Roma, dunque, pare avesse due porti fluviali, mi dice. Uno proprio all'altezza dell'isola Tiberina.
"Signorina, sarebbe così gentile da farmi un favore?"
"Certo, mi dica"
"Mi aiuti a far fare una figuraccia ad una persona!"
L'uomo dalla pancia rossa estrae dal taschino della giacca un cellulare.
"Me lo può reggere?"
"Certo"
Il cellulare, semplice, è senza la protezione per la batteria.
In silenzio, cerca nelle tasche sia dei pantaloni che della giacca qualcosa. Tira fuori una rubrica, un po' rovinata, senza la quarta rigida.
"Giovanni ..." sussurra sfogliando le pagine. "Ecco, eccolo. Sarebbe così gentile da digitare il numero così non sforzo troppo la vista?"
"Certo, mi dica"
"Tre due otto ..."
Io digito il numero che mi detta e faccio partire la telefonata. Gli passo il cellulare e lui mi ringrazia con lo sguardo.
Sono curiosissima. E mi sento come sospesa.
Nel giro di pochi istanti inizia quella che sarà una telefonata alquanto strana. Questo certo signor Giovanni, a cui l'uomo cfon la pancia rossa si rivolge presentandosi come Mario, potrebbe anche non esistere e non essere interlocutore della telefonata.
I due hanno da ridire su dettagli della storia di Roma, su particolari che è troppo semplice cercare su Wikipedia, su scommesse in cui ci si giocano gogliardiche mangiate al ristrorante.
Saranno più di cinque minuti di telefonata e io me ne sto lì, a guardare l'uomo e poi il cielo di Roma che si sta scaricando delle nuvole e penso che questa pioggia è stata bellissima.
E mentre mi rigiro alcuni pensieri nella testa, l'uomo termina la telefonata e io gli sorrido.
Non dice niente e ripone il cellulare e la rubrica in una tasca delle giacca.
"Se le capita, entri in quella chiesa, è bellissima" mi dice indicando la chiesa di fronte a noi.
"Io adesso vado. La saluto"
"Va bene. Allora arrivederci"
L'uomo prende la borsa di tela bianca, se la mette a tracolla, riprende le racchette da sci e fa qualche passo verso la Madonna affrescata.
Improvvisamente mi spiace il nostro incontro sia già finito, ma non riesco a fare niente, ho paura di rovinare questo e tutti gli altri momenti.
Mi escono solo queste parole:
"Lei è stata la cosa più bella che mi è capitata, oggi"
E l'uomo, già rivolgendomi le spalle:
"Allora signorina lei è messa proprio male"

martedì 8 giugno 2010

L'uomo con la pancia rossa, prima parte

Oggi sono venuta a Roma per la seconda volta in vita mia. In mezza giornata ho visto molto di più di due anni fa, quando non feci altro che dormirci, in capitale, e transitarci per raggiungere Ostia.
Ora sono seduta nel dehor di un baretto al di là del Ponte Sisto e ho esigenza di scrivere questo post, che trascriverò appena possibile.
Fino alle 17:30 sono stata impegnata in un convegno. Quando ne sono uscita ha cominciato a piovere. E poi a diluviare.
Avevo appena attraversato il primo tratto di ponte sull'Isola Tiberina e genialmente ho pensato di ripararmi sotto ad un balcone. Dopo pochi istanti il mio sguardo è stato catturato dalla figura di un uomo.
Fermo, sul ponte, con le mani appoggiate al cornicione. Un uomo enorme sotto il temporale. Guardava il Tevere e il cielo.
Poi si è mosso e s'è girato verso la mia direzione. Ha cominciato a camminare verso di me. Nelle mani teneva due bastoncini da sci, con i quali si aiutava a camminare. E la giacca e la camicia che aveva indosso erano completamente slacciate.
Aveva la pancia grande e nuda all'aria.
E la sua pancia era colorata di rosso.
Da lontano pareva lo avessero colorato con una bomboletta spray.
Io, già da un po', gli avevo fatto delle fotografie con la mia comoda macchina digitale. Quando gli ho visto l'addome non ho resistito e gli ho fatto un video.
Lui continuava a camminare, verso me, e così ho messo via la macchina fotografica.
In pochi secondi mi era accanto.
"Mica starà piovendo?" mi chiede.
"No, solo un po' " gli rispondo.
E continuo "Secondo lei dura ancora per tanto?"
"Assolutamente no, sta già schiarendo"
Era vero, verso San Pietro il cielo era chiaro.
Con calma s'è appoggiato al davanzale al quale poggiavo la mia schiena. Ha legato la sua borsa bianca di tela alle inferriate.
"Non ha freddo?"
"No. Io non ho nè freddo nè caldo e non ho mai fame nè sete."
"Allora lei è senza corpo!" gli ho detto sorridendo.
Lui si è palpato un braccio e m'ha risposto "Probabile".
La coppia spagnola che si riparava accanto a noi è andata via, sotto l'acqua.
"Stia tranquilla non è sangue. E' marmellata"
"Marmellata?"
"No, non è vero, è una medicina che sto prendendo" e s'è chiuso un po' camicia e giacca.
Quel colore rosso quasi fluorescente quasi fucsia lo aveva anche sulle scarpe da ginnastica.
"Si può sapere perché voi romani siete così idioti?"
"Io non sono romana. Io sono di Torino"
Lui ha alzato gli occhi al cielo e ha detto "O madonna santa"
"Scusi, mi spiace!"
"A'jè 'd Turin!"
!Oh, già, boja fauss!"
Ammetto, divertente questo scambio di battute in zoppicante piemontese.
"Ha visto la Madonna?" mi chiede d'un tratto.
"Quale Madonna? No"
"Ecco, allora vada per 12 passi verso di là e alzi lo sguardo. La borsa la può lasciare qui"
"Guardi che mi fido"
"Si fidi"
Lascio la mia borsa di pelle a tracolla e faccio questi 12 passi sotto la pioggia. Mi volto a guardarlo. Mi fa cenno di alzare lo sguardo. E la vedo. Una Madonna affrescata sul muro, a forse tre metri d'altezza. Ai suoi piedi lumini accesi e rose e una tenda da campeggio rossa. Vorrei guardare questa scena per molto ancora, ma invece mi volto e torno dall'uomo con la pancia rossa.
"Roma è una città molto legata all'acqua" mi spiega "Piove, c'è il Tevere ... una volta il Tevere straripò e arrivò all'altezza della Madonna. Quando poi l'acqua ridiscese il lumino che era accanto all'affresco era ancora acceso"
"Davvero?"
"Così si dice"
Poi, chissà, mi chiede "Lei sa quanti porti aveva Roma?"
Taccio con lo sguardo colto in ignoranza. Lui allora mi suggerisce con le dita, due.
"Due!" dico contenta.
"Oh, brava, complimenti"

...... to be continued...

martedì 1 giugno 2010

Giorgio cantava

Faccio riferimento ad un mio stesso post pubblicato il 3 maggio appena passato. Lì ho parlato e scritto di Giorgio, con riferimento al racconto "Bla" della mia raccolta di racconti.
Giorgio era una barbone che ho conosciuto a Venezia. E di cui non ho saputo più niente.
Volevo solo scrivere che ieri ho avuto sue notizie. Di un anno fa.
lo hanno visto.
Cantava.
Ad alta voce.
Solo.