venerdì 27 maggio 2011

Non fate crescere niente su questa terra. (Sgalambro)


A MIA MADRE.

Resto accovacciata con la schiena contro il muro. Le ginocchia le stringo tra le braccia, come fossero un bambino da abbracciare. Alla mia sinistra, tra le vetrate, la cittadina si presenta fatta di tetti bassi e d’un campanile. Alle sue spalle le colline verdi d’estate.

Il pensiero mi rimane sospeso tra le vie che non vedo ma che intuisco e ricordo. Dove da bambina camminavo solitaria per andare a comprare il pane. Dove da ragazzina passeggiavo con Golia al guinzaglio.

Mia madre è in sala operatoria fa quasi tre ore. Non ne so il perché.

Soffrire, dovrei soffrire ma non penso quel che sento dentro sia sofferenza. Non ho la forza per questo sentimento. Non ne ho voglia. Non ne ho il coraggio.

Penso a mio padre, a quando se ne andò via di casa. Io, come una pazza, a saltare sul letto e a piangere e mia madre a cercare di tenermi buona. E cosa diciamo alla nonna? chiedevo, come se quella domanda fosse l’unica forma che trovasse il mio dolore. Le diciamo che papà è andato via. Mi sembrò la risposta più stupida potesse darmi. Idiota, idiota di una madre. E poi cercò di abbracciarmi e io mi divincolai dalle sue braccia magre e piansi ancora più forte mio padre.

Alla mia destra, adesso, s’è materializzato un infermiere. Mi coglie impreparata, assorta nei ricordi di un furgone rosso che s’allontana da casa.

Non vuole sedersi su una sedia, di là?

Lo guardo con occhi pesti. No.

Vuole che le offra un caffè?

Ritorno a guardare oltre la vetrata.

Qui do fastidio?

No. Lo dicevo per lei. Caffè?

Guardo in lontananza l’orologio sul campanile. Le due e quaranta.

Va bene, mi offra questo caffè.

L’infermiere mi sorride e subito si volta.

Questo suo movimento lo rende ai miei occhi improvvisamente interessante.

Lavoro qui da otto anni, mi dice, e lei è la prima persona che si siede in quell’angolo dell’ospedale.

C’è una bellissima vista, dico.

Lo crede veramente?

Taccio.

Il caffè delle macchinette è insapore. Acqua marrone con un lievissimo retrogusto di bruciato.

Quanti caffè delle macchinette hai bevuto, tu, mamma? A scuola, al mattino e al pomeriggio. Caffè che facevi scendere caldi sulle tue ulcere, ferite che hai sempre avuto e che hai curato, più volte. Ulcere che annebbiavi con il fumo delle sigarette, le ms mild che ti rubavo quando ho cominciato a fumare, che ti andavo a comprare dal tabaccaio della stazione quando a malapena sapevo contare il resto.

Bevo questo caffè pensando a te, alle tue dita lunghe dai polpastrelli larghi a tenere il bicchierino marrone di plastica.

Ha notizie dalla sala operatoria?

No.

Vedrà, andrà tutto bene. Sue madre è incredibilmente forte.

Nonostante i pochi chili che ti sono rimasti attaccati alle ossa, nonostante il tuo unico cibo sia un sacchetto bianco di poltiglia energizzante da ormai mesi, nonostante nessun medico capisca cosa hai in pancia, nonostante me, nonostante quel che ti ho fatto passare, mamma, sei incredibilmente forte.

Finisce il caffè. Finiscono questi dieci minuti.

L’infermiere mi saluta.

Torno a sedermi nel mio angolo e silenziosa e calda, piango.

venerdì 20 maggio 2011

Prelude to the rain.

Non so bene. In alcuni momenti e in questo, mi piace.

Video.

martedì 17 maggio 2011

Da un racconto incompiuto.

[...]
La scaglia di sole giallo a tagliare le nuvole nere, adesso, oltre la porta del tram, in alto, verso le montagne, dopo la pioggia che ci è caduta addosso per quasi due giorni, quel sole, e non la gente, mi fa stare bene. Di quello mi accontento. I miei occhi ringraziano lo spettacolo in cielo.
L'ultima volta che ho preso il treno era mattino presto. Alle sette partiva il mio convoglio. Il tram era vuoto. Solo io e la mia immagine riflessa sul finestrino, tra il caldo del mezzo pubblico e la rigidità della città. Poi sono arrivato in stazione e le luci al neon erano ancora accese, perché ormai il buio perdura fino a tardi. E mi son preso un caffè al bar della stazione pagandolo un euro. E mi son guardato intorno e ho visto facce stanche, anche quel giorno, che era domenica. Mi son seduto sul treno che aspettava di partire al binario due e in un attimo mi sono trovato circondato da relitti adolescenziali del sabato sera. Orrendi vestiti frusti e lisi che addentavano il mattino, precipitosi nell'infilarsi poi a letto per smaltire l'alcol e la cocaina aspirati ballando.

giovedì 12 maggio 2011

Passaggio.

Sono in una condizione emorragica.
Ho un buco, da qualche parte, un taglio, un'abrasione.
Ne fuoriesce tutta la mia malinconia.
Sono qui, a casa, nel mio paese e mi sento estraneo. Perché mi sembra di perdere Marie. E tutto ciò che questo vorrebbe dire.
Recrudescenza non programmata.
Quelle parole, sono state quelle parole, di cui ignoro l'identità e l'intenzione, che non riconosco, che non sono probatorie, ma solo allusive. Parole che mi hanno dato modo di ipotizzare, di accumulare paure, di costruirmi questo groppo di condizionali e di se.
Tu senza le parole ... non può che essere Marie, la mia sposa muta. E nel formulare questo pensiero, sento la precarietà della parola sposa e poi subito dopo del pronome possessivo, mia.
E sento anche quanto possa cominciare a mancarmi Marie, adesso, che dorme affianco a me tutte le notti e che siamo nello stesso emisfero, nello stesso continente, nello stesso stato, nella stessa regione, nella stessa città, nella stessa casa.