mercoledì 22 dicembre 2010

Atono. Il racconto.

Cerco la parola che esprima questa sensazione, questa situazione, questo stato di smobilitazione di ciò che mi circonda. Dopo una parentesi frapposta nei giorni diventati come simboli tipografici, torna il male. Otorinolaringoiatra: ne cerco uno perché mi operi alle corde vocali e mi faccia diventare muto. Senza parola, senza linguaggio, sospeso dalle responsabilità di risposta.
La verità quale è? E' che sono in piena recrudescenza. Nel mezzo dell'Europa, oltretutto. Su un treno azzurro e verde diretto a Wroclaw, appoggiato con la fronte al finestrino, permetto alle immagini che scorrono di impiastrarmi gli occhi di questo nero che copre ogni cosa. Come catrame depositato sui tetti dopo un'esplosione, uno spiaggiamento, una guerra. Nel mio stesso scompartimento una ragazza bionda sfoglia una rivista dalle pagine sottilissime simili a carta velina e mi vengono in mente le mani di mia nonna e poi dei fiori.
Guardo le occhiaie della ragazza. Sono verdi.
La decisione di non parlare è recente. Sono in viaggio da sei giorni e da sei giorni non parlo. Fossi un bambino si tratterebbe di mutismo selettivo, ma visto che di anni ne ho ventisette è da escludersi. Il principio invariabilmente rimane lo stesso. Io parlo solo con chi voglio. Io non voglio parlare con nessuno.
Di questo Paese non ne capisco l'idioma. E' una condizione ottimale per il mio intento di mutismo.
C'è un incipiente disegno che sta venendo fuori dalle strade che percorro, come un ricamo sulla cartina politica del centro Europa. Non so ancora quale forma avrà, quale sinuosità o linea spezzata modellerà, ma la genesi è avvenuta e nulla può ormai arrestarla. Anche da questo treno sto disegnando, chilometri di persistente intimo silenzio tratteggiati con una matita morbida, dalla grafite grassa, spessa, di lucentezza metallica.
Ho appoggiato questa matita sul territorio europeo in corrispondenza di Venezia, su cui mi sono soffermato accanendomi a disegnare un piccolo cerchiolino, sempre uguale, con la punta a milinare sulla propria stessa grafite, come volesse bucare la carta. Sarà che a Venezia si rimane bloccati a girare su se stessi, a percorrere le fondamenta che delimitano l'isola come la tigre che nervosa cammina avanti e indietro lungo le inferriate della gabbia. Circumnavighi quel pesce che sta affondando, passi di sestiere in sestiere e ti ritrovi sempre al punto di partenza. Venezia è silenziosa. L'unico rumore prepotente è il motore dei vaporetti.
Un trattato dell'Ottocento parla del ritmo come di un gesto che si sente. Il battito del mio cuore, i miei piedi uno di seguito all'altro, le mie mani che applaudono. Organizzazione del tempo. Un diptero. La parola pronunciata non mi serve più. Ho il mio corpo, ho lo spazio, ho il tempo. Sono pieno di suoni.
Torno a guardare le occhiaie della ragazza. Mi chiedo se lei è abituata a tutto questo bitume che unguenta il paesaggio polacco.
Immaginifico paesaggio immateriale. Emulsione opalescente. Sbiadita. Passata. Finita.
Me ne dovrò fare una ragione.
Nicchio in falsità, in illusioni, in omissioni. Il tempo passa ma non lenisce. Il tempo passerà e io troverò il vero, alla fine, ad un certo punto. Sarà una realtà inasprita e sarò stato io a inacidirla, avrò esacerbato il mio quotidiano con certosino lavoro. Succo gastrico come aria da respirare. Limoni spremuti su letti ancora caldi di umori. Ulcere. Erosioni. Lacerazioni. Escerbazioni.
Quando ti ho vista su quel letto ho perso il punto d'appoggio.
Sfrenata danza di corpi a me estranei se non il tuo. Il tuo corpo, che così bene conoscevo e amavo. Se ci deve essere un senso per la parola intimità, quel senso è sparito nei miei occhi ed è stato risucchiato dalla retina. Al rovescio, senza rielaborazione cerebrale, il senso è decaduto comunque.
Cosa ci facevi in mezzo a quei corpi maschili? Tu, unica donna? Cosa facevi? Cosa stavi capendo?
Ho scostato la porta, sentivo del brusio, del sussurrio, ho pensato a dei gatti non so perché.
Eri stesa sul letto. A pancia in su. Eri nuda, con il reggiseno nero appena sotto i seni. Una mano appoggiata sullo sterno clavicolare, le dita molli e abbandonate nell'immobilità. E il tuo viso, riverso di lato, con gli occhi chiusi.
Cosa potevo capire?
Intorno a te quegli uomini con bottiglie di gin in mano e tu via, già lontana dopo essere stata fin troppo presente, tra le loro cosce, con le gambe aperte e il rivolo di sangue che ti usciva da dove? da dove?
Amore, io non ho fatto niente. Non ti sono venuto in soccorso, ti ho solo odiata. Amore ti odio.
Guardo ancora una volta le occhiaie della ragazza che mi sta seduta di fronte e vedo al posto suo te, adesso. Stavo già male e continuo a stare male e le occhiaie che tu portavi indosso l'ultima volta che ti ho vista erano forse come queste, di occhiaie, verdi, tristi, affamate.
Scappare non potevo, subito. Quelle solite mura invisibili intorno alla nostra città, Venezia, paese piccolo e enorme, e io come allucinato a cercare di buttarmi in laguna sperando di essere assorbito dalle acque putride, con il pensiero rivolto a te che ti sei offerta al mio sguardo in un modo tutto nuovo e orrendo.
Cosa è successo?
C'era quel maledetto silenzio, un'alba annichilita piena di postumi di orgia e di movimenti ficcanti.
Sarei salpato dalla Punta della Dogana, lasciando la mia àncora in mezzo alle tue cosce, insieme agli arpioni di tutti quegli altri uomini. Ed è violenza, è stata violenza, sarà violenza.
Ripongo il mio essere nella possibilità di questo treno.
Atono, mi nascondo.
Non abbiamo neanche potuto piangerne insieme.

1 commento:

  1. Questo racconto tocca, tra le altre cose, la questione del possesso, degli esseri umani e delle città. Venezia è possessiva, in un modo inspiegabile a chi non ci è vissuto: non obbliga nessuno ad andarsene però continua a drogarlo con gemme che riempiono gli occhi, con una realtà non mediata ma proprio reale, continua a lasciargli semini dentro in modo che viva un eterno ritorno. Il mutismo del narratore è paradossalmente un chiudere gli occhi, per difendere la propria unità, per non disperdersi. Bello.

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