giovedì 23 settembre 2010

Blank.

Mi vesto di bianco, sposa sacrificale che non ha altare.
Mi vesto di bianco, mi metto indosso tutta la luce che posso, sperando almeno l'apparenza inganni il mio animo. Se distrattamente mi vedo riflessa allo specchio il mio sguardo respira, come dinnanzi ad un quadro ben calibrato. Respiriamo profondamente, dunque, io e me stessa, come fossimo due persone che condividono il medesimo corpo. Un corpo ricoperto di lana bianca, morbida, calda. Mi ci avvolgo dentro, scaldandomi il collo e il petto.
All'ottava sigaretta della mattinata decido di uscire. L'aria qui dentro è già e ancora piena di nicotina ed il fumo esercita su di me una sorta di oppressione.
La mansarda in cui vivo è scura, nonostante le due grandi finestre basculanti. E' scura e disordinata, con troppe cose appoggiate per terra, tre paia di scarpe, nove libri accatastati l'uno sopra l'altro accanto alla poltrona dove adesso son seduta, fogli stampati e messi in ordine sparso come caselle d'un puzzle che cercano il proprio posto, vecchie cassette, un paio di mutande pulite, le pantofole di pile che mai uso, il borsone di pelle, tre penne, una bottiglia di vino vuota, due bicchieri sporchi, due assorbenti viola ancora chiusi, un paio di maracas.
Allontano le ginocchia dal mento e dal petto e stendo le gambe, facendo toccare i talloni per terra. La poltrona a dondolo cigola sotto lo spostamento di peso del mio corpo e mi invita ad alzarmi.
Cammino a piedi nudi sul pavimento freddo, scartando gli oggetti che ostacolano il mio percorso. Raggiungo il bagno, per guardarmi riflessa allo specchio, bianca, per guardarmi e respirare.
Adesso esco, mi dico, senza pronunciar parola, guardandomi negli occhi. Lavati i denti, mi dico, questa volta dando alito alle parole. Scelgo un tubetto di dentifricio tra i tanti sdraiati sulla mensola, prendo quello che sembra meno vuoto e lo spremo sulle setole dello spazzolino. Sfrego sui denti con talmente tanta forza che pian piano le mie gengive si stanno ritirando.
Mi guardo i capelli arruffati e ci passo una mano in mezzo, come se le mie dita fossero un pettine. Io non ho neanche un pettine, sempre stata contraria. I miei capelli son quel che sono, al massimo li raccolgo sulla nuca incastrandoci dentro una matita. mia nonna mi odiava, per questo. Diceva che dovevo pettinarmi se non volevo sembrare scappata di casa. Diceva che tutta trasandata il mio viso si imbruttiva. Mia nonna mi vedesse adesso finalmente morirebbe, ponendo fine alle agonie della senilità. Se le volessi veramente bene andrei a trovarla in clinica e le farei venire un infarto. Me ne sarebbe riconoscente. Lei, ora ridotta ad un vegetale, lei, che quando ancora ragionava voleva corrompere il suo medico perché le facesse una puntura letale.
Sorriso forzatamente alla mia immagine riflessa, guardandomi i denti. Puliti. Regolari. Bianchi. Cristo, giornata monocromatica.
Torno nell'altra stanza e dal tavolo prendo le chiavi di casa, le sigarette, un accendino e cinque euro. Tiro su anche trenta centesimi, non si sa mai.
Mi infilo senza calze le scarpe che ho comprato l'estate scorsa a Rotterdam, le più eleganti che ho, tre euro, usate prima di me da chissà chi, forse una donnina estrosa che per esternare la propria bizzarria indossava scarpe con un tacco blu scuro di quattro centimetri, con la punta rossa ed il tallone verde.
Mi ritrovo in strada. Fioca chiara luce trafigge la leggera nebbiolina che si sta alzando. Ed io, chiaro volume tra chiaro volume in dissolvenza, giro subito a sinistra, come fosse un automatismo. Se ho girato a sinistra è perché sto andando al cimitero.
Il percorso è abbastanza esposto al traffico delle macchine che entrano in città, automobili che quindi non hanno ancora ridimensionato la propria velocità. Corrono, corrono ed io, nel verso contrario, cammino. Lentamente. Come se il bianco che indosso mi imprimesse un'aura pacata, alta sopra i ritmi frenetici della città.
Vado verso il cimitero e penso che allora sarebbe stato meglio starmene in mansarda. Zitta e buona. A fumare, ad ascoltare la radio, a dissolvermi. Invece no, dritta verso il nodo di tutti i dolori, dritta verso la tomba del mio giovane marito, morto ventiseienne. Vedovanza che cammina. Vuoto improvviso che sopraggiunge. Neanche il tempo di godere l'uno dell'altra. Neanche il tempo di finire il mobile per la camera da letto.
Mi presento da lui senza fiori. Senza niente. Gli porto solo i miei saluti. Ciao caro mio. Coma mai te ne sei già andato via? non so più cosa fare. Cosa devo fare? dove devo investire le poche energie che mi restano?
E' stata un'idea stupida, venire a trovarti. Scusami. Non ce la faccio.
Riattraverso il viale del camposanto. Incrocio altre vedove. Loro avranno almeno sessant'anni. Loro avranno imparato la solitudine, la consolazione del punch caldo o dell'Atto di Dolore. Loro, mi dico, avranno goduto almeno un po' il proprio compianto marito. Io no. E' questo che mi corrode.
Fuori dal cimitero ripercorro il tragitto al contrario, senza neanche pensare di fare una passeggiata, o di andare a prendere un caffè da qualche parte o di incontrare qualcuno. Ma qualcuno chi, oltretutto? dopo che lui è morto i nostri amici hanno pensato di lasciarmi ampio spazio di solitudine, alcuni forse hanno paura di essere troppo invadenti, non lo so.
Davanti al portone di casa il mio sguardo si posa sull'etichetta del citofono, l'etichetta del nostro citofono, con il mio cognome e il suo. Un solo attimo che dura il tempo di inserire la chiave e di far scattare la serratura, un attimo brevissimo e crudele.
La rampa di scale che mi ritrovo davanti sembra enorme, altissima, infinita. Lotto contro il magone che sta per sorprendermi. Raggiungo la mansarda senza ormai fiato.
Entro in casa. Respiro profondamente. Chiudo la porta alle mie spalle. Mi tolgo le scarpe.
Vado subito a guardarmi allo specchio del bagno. Bianca. Bianca. Bianca. Bianco. Bianco. Bianco. Bianco. Rosso. D'improvviso. Io inginocchiata nella vasca da bagno che lavo i suoi vestiti. I vestiti nei quali è morto. L'acqua che diventa rossa, intorno alle mie nude gambe. E' il suo sangue. E' morto sfracellato. I vestiti sono pieni di suo sangue. Lezzo. Lacrime. Nausea. Rito funebre. Io immersa nella vasca da bagno rossa. Marat. Ofelia. Mi addormento, marinando in sangue morto e acqua salata. Al risveglio globuli rossi e bianchi rappresi sulla mia pelle. Per un'ultima volta ancora insieme.

1 commento:

  1. ogni volta che comincio a leggere i tuoi racconti, poi nn riesco mai a smettere prima di avere terminato. anche se li ho già letti, come questo. è una bella dote.
    tutto il bianco nella pagina e il rosso finale che lo copre, evocano in me, le immagini di un regista che mi è molto caro.
    a volte sembra che usi la penna come una macchina da presa.
    scusa per gli azzardi (ne avrei altri)
    a presto.
    fh

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