sabato 30 aprile 2011

Da un esercizio.

Dato un incipit, continuare il racconto scrivendo al massimo una cartella. Ahimè, storia noir.

C'era qualcosa che la tormentava anche se non riusciva a capire cosa.
Come quando senti un dolorino che non se ne va.
O quando, tornando a casa, ti accorgi che c'è un uomo dietro di te... Che sia lo stesso che ti guardava in metropolitana?
O quando vedi un puntino scuro che si muove verso il tuo letto e poi sparisce... Una vedova nera?
Ma poi il suo ospite, seduto sul divano del salotto, la guardò sorridendo e Alice S. dimenticò le sue preoccupazioni, se di preoccupazioni si trattava. Arthur era un tipo brillante e di bell'aspetto, certo. E, soprattutto, aveva uno splendido sorriso.
Alice sorseggiò quindi la sua vodka sour, appoggiando delicatamente le labbra al bordo sottile del bicchiere, guardando negli occhi l'uomo che le stava accanto, elegante, affascinante. Ci fu un breve silenzio, rossore sulle gote, piacevole imbarazzo. Lui appoggiò il proprio bicchiere sul basso tavolino di vetro, senza mai distogliere lo sguardo dalla donna. Le si avvicinò di quel tanto da farle sognare un bacio, delicato e appassionato, che potesse scacciare definitivamente quella vedova nera dai suoi pensieri.
Le sussurrò nell'orecchio: "Ho portato della musica da farti ascoltare" ed estrasse dalla tasca della giacca un CD.
Lei lo prese e senza neanche guardarlo disse "Bellissimo". Poi si alzò e, girandosi ad ogni passo, andò verso lo stereo.
Si abbassò per aprire lo sportello del lettore CD, pensando allo sguardo di lui che si sarebbe posato sul suo sedere rotondo, ma rimase congelata. Congelata. Il cuore le arrivò in gola.
Arthur stava ridendo.
D'una risata stridula e grassa allo stesso tempo.
Alice riuscì a girarsi e lo vide in piedi, con la testa ribaltata all'indietro, come fosse un pianista preso dall'estasi esecutiva. Quella sua bocca spalancata, buco nero pronto a fagocitare tutta la stanza, il divano, il tavolino, i due bicchieri, lo stereo, Alice.
Lo sportello del CD si aprì e sbattè contro la gamba di Alice, che si spaventò, sussultò, qualcuno o qualcosa le stava sfiorando la gamba. Si voltò d'istinto, vide lo stereo, maledizione, che spavento, maledetto stereo.
Arthur continuava a ridere. Si stava avvicinando, con gli occhi allucinati, puntati su di lei.
In un attimo le fu addosso.
Alice non ebbe tempo di urlare, aveva il respiro bloccato.
Lui la lasciò per terra sul pavimento freddo, con le gambe divaricate, senza gonna. E nell'aria, a ripetizione infinita, la musica di Miles Davis.


thank's to Camilla Corsellini.

venerdì 22 aprile 2011

E' notte e ci soffia all'orecchio che l'ora già muore...

E' passato ormai un mese, dal mio rientro. Tante abitudini sono state ricollaudate e il mio spirito rinfrancato. Ma appena prima di spegnere la luce, alla sera, nella nostra camera da letto, non vorrei solo dirle, buonanotte Marie, ma anche dirle che ho bisogno che lei parli di me. Che si perda a decifrare i pori della mia pelle e come fosse codice, capisse i segni innumerevoli che ho accumulato e collezionato nel tempo, nel tempo lontano da lei. Che quel segno che ho sulla caviglia potesse farle nascere la curiosità di chiedermi cosa mi sia successo. Che guardandomi mi chiedesse, dolcemente, di parlare di me così che lei possa poi continuare lo stesso mio racconto, dal suo punto di vista.
Buonanotte Marie.
Buonanotte, e mi abbraccia, da dietro, facendo aderire la sua pancia alla mia schiena. E io penso che forse la parola è la comunicazione errata, anche dopo un mese, e che mia moglie mi interroga molto più di quanto io possa immaginare e allora mi lascio addormentare con un senso di incomprensione, di sconfitta, di mancanza. Ancora non capisco il reale legame con Marie, penso, ancora non mi capacito della sua forza espressiva, ancora cerco àncora nella sicurezza dell'idioma, confondendo l'amore con la testimonianza. Eppure, eppure, eppure e mi addormento tra un dubbio e la sua mano sul mio petto.

lunedì 18 aprile 2011

Per orizzonte stelle basse oppure niente.

Nell'ultimo viaggio ho visto molto orizzonte. Tra cielo e mare. Tra terra e cielo. Qui a casa l'orizzonte è troppo vicino, per essere tale. Lo sguardo non precipita, non precipita da nessuna parte, ma anzi si arrampica sulle verticalità degli edifici e delle montagne in lontananza. Può essere l'orizzonte un ostacolo? O deve invece far tendere gli occhi e protendere il mento verso l'oltre?
Insoluto mi guardo intorno e lo spazio tra me e l'orizzonte, qui, è una conca di intimità e appartenenza.
Mi mancavano i viali alberati, della cui ombra godo in queste giornate di sole. Mi mancava il rumore del mercato della domenica. Sentire la mia lingua pronunciata da mille persone, vecchi, bambini, donne belle, donne brutte. Il sentirmi appartenere a dei suoni che mi hanno circondato fin da piccolo. Quei suoni sempre simili a loro stessi, che nei confini occludenti di questo orizzonte, si fanno eco.
Non ascolto ma sento, e sento le voci del mio paese e capisco che questa è una delle mancanze peggiori, quando sono lontano. Sentire la pronuncia di parole di cui ignoro il significato e che devo mettermi in bocca per poter iniziare a dialogare, aspettando di trovarne familiarità.
Invece, qui, mi lascio naufragare in questa eco che quasi mi addormenta, come ninna nanna materna.